Un paio di anni fa mi ero soffermata, proprio su queste colonne, sulla problematica dell’oggi ormai noto scambio automatico d’informazione di dati bancari e la tutela della protezione dati. Mi permetto ricordare che le regole introdotte dal Common Reporting Standard (CRS) sviluppate dall’OCSE e quelle del Foreign Account Tax Compliance Act (FACTA), implementate dagli Stati Uniti, stabiliscono l’obbligo degli istituti finanziari di raccogliere e scambiare informazioni riguardanti i loro clienti – nonché le persone collegate a strutture patrimoniali (società, trust, fondazioni) con conti bancari presso l’istituto finanziario di turno. In grandi linee le informazioni da raccogliere e scambiare – sia per quel che riguarda i titolari di conti detenuti in maniera diretta, sia per persone collegate a società, trust e fondazioni – sono: il nome, il luogo e la data di nascita, il numero d’identificazione fiscale, il nome della banca, il numero del conto, il saldo o il valore del conto e il reddito relativo maturato dalla relazione bancaria durante l’anno fiscale.
Pochi mesi prima dell’entrata in vigore dello scambio automatico d’informazioni bancarie diversi autori si erano soffermati sulla problematica della tutela della protezione dei dati; persino il garante europeo si era espresso in modo scettico sull’implementazione dello scambio. Tanto rumore per nulla, si potrebbe riassumere. Gli istituti finanziari e le amministrazioni fiscali di tutto il mondo hanno iniziato a trasmettere le informazioni e niente si è mosso. Fino a pochi giorni fa. Ecco una storia che vale la pena riassumere e che sicuramente permetterà alle istanze giudiziarie di fare chiarezza su questi principi fondamentali della tutela della sfera privata. Tanto più che, ad una conferenza alla quale ho assistito due giorni or sono, Pascal de Saint-Amans (direttore dell’OCSE) ha ribadito che occorre proseguire sulla strada intrapresa (trasparenza fiscale, scambi di informazioni, implementazione di strumenti multilaterali di assistenza). Ma veniamo al caso. L’avvocato Filippo Noseda, che da anni perora la causa della protezione dati, ha deciso (grazie al noto studio legale londinese nel quale lavora) di seguire il caso di Jenny. Jenny è una cittadina britannica nata negli Stati Uniti e trasferitasi nel Regno Unito una ventina di anni fa all’età di 22 anni. La donna è oggi coniugata e lavora quale ricercatrice all’università con studenti non udenti. Jenny ha un conto bancario nel Regno Unito dove riceve il suo stipendio e paga regolarmente le tasse sui proventi che riceve. Ma ecco che Jenny, come altri cittadini americani, è incappata nel FACTA. In che modo? Ricevendo, di punto in bianco, una lettera della sua banca che le comunicava che poteva avere degli obblighi fiscali negli Stati Unici e che l’istituto bancario avrebbe inviato le sue informazioni all’Internal Revenue Service (IRS). La banca avrebbe quindi inviato tutte le informazioni personali e finanziare alle autorità statunitensi su base annuale.
Jenny non ci sta ed ecco che inizia, tramite lo studio legale londinese, una raccolta di fondi atta a poter coprire le spese di causa al fine di tutelare i propri diritti (per più informazioni vedi https://www.crowdjustice.com/case/fatcahmrcprivacybreach/). Quali sono le osservazioni di Jenny? Innanzitutto rileva che la condivisione di tutte le informazioni personali e finanziarie è una violazione del suo diritto fondamentale alla privacy e alla protezione dei dati. Oltretutto in considerazione del fatto che le informazioni sono irrilevanti per l’obiettivo del FATCA, che è riscuotere le tasse da coloro che le evadono. Jenny non si ritiene infatti responsabile per le imposte contemplate ai sensi del FATCA in quanto guadagna meno dell’esenzione fiscale sul reddito di $ 104.000 per gli americani che vivono all’estero. Ritiene che la condivisione delle sue informazioni personali e finanziarie è in diretta violazione del GDPR, esponendola inoltre a potenziali hackeraggi lungo tutta la catena di elaborazione dei dati.
Da ultimo vi sarà una conseguenza, non chiaramente intenzionale, che lei e altri cittadini britannici (potrebbe valere anche per cittadini svizzeri o ivi residenti) nati negli USA si vedano chiudere il conto bancario o non siano in grado di aprirne uno nuovo a causa delle implicazioni di costo per le banche per rispettare le regole del FACTA. Jenny, come altri cittadini onesti, ritiene che nessuno deve eludere le tasse. Il suo monito non riguarda lo scopo del FACTA, ma la natura sproporzionata della misura implementata per raggiungere l’obiettivo della trasparenza fiscale. L’opinione pubblica sta cambiando. Il giornale «The Guardian» ha perorato la causa della donna. Chissà che Jenny, ricercatrice in tema di sordità, non riesca a farsi ascoltare in tema di privacy.
Pubblicato su: Corriere del Ticino –