La lucida analisi di Moreno Bernasconi (pubblicata dal Corriere del Ticino il 29 maggio) sul fatto che l’accordo istituzionale Svizzera-Ue così come imposto da Bruxelles non troverebbe una maggioranza di consensi nel nostro paese non può lasciare indifferenti e mi spinge ad alcune riflessioni.
La prosperità della Svizzera si è, da sempre, basata su due fattori chiave: un’economia aperta al mondo e la pace sociale al nostro interno. Tutto questo era ed è basato sul presupposto di poter determinare autonomamente le regole e condividerle con un ampio consenso popolare. L’accordo quadro prevede invece che sia l’Ue a imporre a noi le proprie regole senza possibilità di modificarne sostanzialmente il contenuto. Ci si può quindi legittimamente chiedere se valga la pena ottenere dei vantaggi a corto termine, nel senso di “comporre” la disputa politica con Bruxelles che si trascina dal 2008, perdendo di vista la visione di lungo termine su quello che vogliamo come Svizzera di domani. Persino l’attuale segretario di Stato Roberto Balzaretti, noto conoscitore dell’Ue avendo diretto dal 2012 al 2016 la Missione della Svizzera presso l’Unione europea a Bruxelles, intervenendo a Mendrisio un mese fa, ha apertamente ammesso che all’interno del Consiglio federale non vi è una maggioranza favorevole a questo accordo nella forma in cui è stato negoziato. Rivenendo al contenuto dello stesso, a mio giudizio, il punto più critico per il nostro Cantone riguarda la protezione del mercato del lavoro e dei salari dei lavoratori indigeni che verrebbe in parte intaccata dalle nuove normative (ad esempio riduzione da 8 a 4 giorni del termine di notifica per i prestatori di servizio, cioè i cosiddetti “padroncini”). Un’altra criticità riguarda la prospettiva di recepire la Direttiva comunitaria sulla cittadinanza che metterebbe a rischio le misure di accompagnamento oggi in vigore, allargando anche le possibilità concesse ai cittadini europei di poter accedere più celermente alle prestazioni sociali, una volta acquisita la residenza in Svizzera. Non va neppure sottovalutato il rischio di dover modificare alcune norme cantonali (o comunali) in materia di promozione economica in quanto l’Ue le potrebbe considerare “aiuti di Stato”: Avendo appena abolito gli statuti fiscali speciali nella recente votazione federale la messa in discussione di incentivi economici toglierebbe un ulteriore strumento di competitività ed attrattività al nostro territorio. Sono cosciente che rinunciare, tout court, all’Accordo non è via percorribile in quanto l’Ue rappresenta il maggior partner economico del nostro paese (10 miliardi di merci esportate ad aprile 2019 su un totale di 30 miliardi), tuttavia anche la Svizzera costituisce un importante mercato per l’Ue (12 miliardi di merci vendute in Svizzera nell’aprile 2019 su un totale di 28 miliardi di importazione). Anche l’Ue può avere quindi un interesse a mantenere queste relazioni commerciali e non cadere in un’impasse rappresentata da una probabile votazione popolare negativa su questo oggetto. Insomma, Berna e Bruxelles hanno di che ragionare costruttivamente.
Pubblicato su: La Regione – 4 giugno 2019